L'Editoriale

Programmare il futuro, certo, ma con i piedi nel presente

Un’economia stravolta dal virus ci ha ridotto in mutande. Logico quindi guardare avanti, evitando però azzardati salti nel buio


06/04/2021

di MAURO CASTELLI

Non è raccontare cose nuove, visto che i guai sono sotto gli occhi di tutti. Un anno e rotti di crisi pandemica ha infatti pesato, e non poco, sul quotidiano degli italiani, messi alle corde sia economicamente che psicologicamente. Risultato? Una nazione stremata da chiusure a singhiozzo, da promesse da bar (sempre che se ne trovi uno aperto) non mantenute, da disposizioni capaci di far acqua da tutte le parti, da giravolte politiche da far venire il mal di pancia. 
Perché non c’è verso che tenga: anche quando finisci in mani sicure, come quelle - peraltro stimate a livello internazionale - di Mario Draghi, la ruggine interpartitica, che sembrava essere stata oliata per il bene comune, ritorna già a far scricchiolare gli ingranaggi di Governo. Complice, se vogliano, anche l’irruzione di quel “stai sereno” di Enrico Letta, disposto ad arrampicarsi sui vetri per crearsi un’immagine da vincente, da salvatore della patria. Ma ci vuole ben altro che un Letta per farlo restare a galla e rimetterlo in carreggiata questo beneamato Paese. 
In effetti quello di scassare i cabasisi a fini personali è una prerogativa tutta tricolore. Complice una classe politica, purtroppo orfana di grandi menti, composta da una pletora di dilettanti allo sbaraglio che quando aprono bocca non fanno altro che creare danni. D’altra parte, non essendoci più le “scuole” e la gavetta di un tempo per far crescere allievi preparati, pretendere il meglio da questa marea di parlamentari (che se Dio vuole nella prossima tornata elettorale subiranno una gran bella sforbiciata) risulta praticamente impossibile. 
E a proposito di scuole, parliamo anche di quelle per i nostri ragazzi. Al riguardo - ed è comprensibile - la polemica non ha mai smesso di divampare. Sono o non sono i giovani veicolo di contagio? Siamo onesti. Tenerli a bada è un compito arduo, se non impossibile. Basta tornare ai nostri tempi e farci un esame di coscienza. Se poi ci affidiamo ai sondaggi, se uno dice bianco il secondo replica nero. Come dire, la colpa è sempre degli altri. Magari degli autobus troppi pieni, degli insegnanti che non si fanno rispettare, dei genitori che dribblano sull’educazione, della didattica a distanza, della gravità politica di non poter garantire loro un futuro, e di riflesso anche per la nazione. In effetti ci siamo tutti dentro sino al collo, grandi o piccoli poco importa. 
Ma c’è dell’altro. Abbiamo visto, ad esempio, il peso delle diatribe regionali sulle decisioni che contano. E non importa il colore politico, rosso, verde, azzurro o giallo che sia. Tutti a tirarsi per i capelli, tutti a lamentarsi per non essere in cima alla lista dei pensieri… romani, tutti a giocare a rimpiattino con decisioni che nulla hanno a che vedere con la loro fede partitica, tutti a nascondersi dietro il paravento di errori fatti ma mai ammessi.  
Come nel caso delle vaccinazioni, dove tutti si professano primi della classe, quando invece non è proprio così. La stessa Lombardia, lo dico da lombardo acquisito, ha deluso le aspettative, perdendosi per strada. In altre parole sbagliando nel promettere molto e nel mantenere poco. Basta fare riferimento alle vaccinazioni agli ultra-ottantenni - in alcuni casi vergognosamente sballottati lontano dalla loro abitazione per essere sottoposti al vaccino - che risultano tuttora in alto mare. 
Per contro, nelle aule di Montecitorio e di Palazzo Madama, quelle che contano o che dovrebbero contare, si incomincia a parlare di futuro quando invece non si sa ancora bene cosa ci possa regalare il presente (a parte nuovi casi di contagi). A fronte di un’economia che, stravolta dal virus, ci ha ridotto in mutande. Logico quindi guardare avanti, evitando però azzardati salti nel buio. 
In realtà, tirate le somme, non siamo messi affatto bene. Alle prese con uno stagno dilagante di lamentele e mugugni, non sempre giustificati, da parte di coloro che se ne infischiano degli sforzi e dei debiti fatti dall’Esecutivo per venire incontro, in qualche modo, alle perdite subite dalle varie attività. Perdite che inevitabilmente si sono riflesse, a cascata, sulla componente lavorativa. 
Risultato? Tutti a chiedere ristori, tutti a piangersi addosso, tutti a riempire - sia pure con moderazione - le piazze della protesta, tutti a regalarsi assembramenti, ma soprattutto tutti a preoccuparsi di che fine faranno le loro vacanze estive. Magari all’estero. Come peraltro è successo in questi giorni, senza che - ci mancherebbe - nessuno abbia alzato un dito per stigmatizzare... Salvo poi decidere - di fronte allo sdegno di chi ha la testa sulle spalle - che i vacanzieri di ritorno debbano sottoporsi a cinque giorni di quarantena. Sì, cinque giorni. Ma sino a ieri non erano dieci se non quattordici?

(riproduzione riservata)