L'Editoriale

Parola di un europeista: Bruxelles ha fallito e i troppi errori sono sotto gli occhi di tutti

Premesso che dell’Unione oggi non possiamo farne a meno, è pure vero che non dobbiamo sottostare a ulteriori quanto ingiuste mortificazioni


29/03/2021

di MAURO CASTELLI

Sia chiaro. Oggi come oggi il solo pensare di uscire dall’Europa e, in subordine, dall’euro rappresenta una follia pura. E non ci vuole una mente eccelsa per capirlo, visto che siamo alla frutta, sfiancati da un anno e passa di pandemia. Con il debito pubblico salito alle stelle per cercare di venire incontro, seppure in maniera parziale (ai miracoli nessuno è ancora attrezzato), al blocco delle attività, escluse quelle primarie; con la disoccupazione che ha subìto incrementi devastanti nonostante lo stop ai licenziamenti; con una marea di attività, a partire dal turismo e dalla ristorazione, alle prese con l’azzeramento degli introiti. 
Detto questo, e ribadito che non possiamo fare a meno dei promessi 209 miliardi di euro del Recovery plan (l’importante sarà riuscire a spenderli bene), risulta corretto guardarsi intorno. In primis chiedendosi come mai i finanziamenti che ci ha concesso Bruxelles nel periodo fra il 2014 e il 2020 non siano stati ancora in buona parte utilizzati e rischiano pertanto di finire in cavalleria se non lo si farà entro il 2023. Un monito, questo, che dovrebbe far riflettere quella parte del Paese che sa lamentarsi molto ma che fa poco per muoversi su direttive corrette (in primis il Meridione, che certamente - ci mancherebbe - ha bisogno di nuove spinte propulsive, ma che sinora non ha fatto del suo meglio per meritarsele). 
Basti riprendere i contenuti dell’ultimo monitoraggio della nostra Ragioneria generale dello Stato per rendersene conto. Da questo “controllo” è infatti emerso che, nel compendio di programmazione del citato periodo, il nostro Paese ha speso soltanto il 48,7 per cento dei 73,4 miliardi di euro che ci sono stati messi a disposizione. 
Ma torniamo al dunque, ovvero a questa Europa matrigna cui siamo legati a doppio filo. Una unione che si regge su un apparato parlamentare oppresso da una pletora di burocrati e incompetenti, che finiscono - anziché risolverli - per creare ulteriori problemi. 
Si tratta di una Ue, come ha avuto modo di annotare in un suo libro Mario Giordano, che ne ha combinate di tutti i colori. Ad esempio - repetita iuvant, anche per sorridere un po’ in un periodo in cui ce n’è tanto bisogno - ha mandato a nostre spese dei ballerini belgi a insegnare danza agli abitanti del Burkina Faso; ha sborsato nove milioni al Mali per finanziare un programma volto a favorire l’occupazione in Europa degli abitanti del posto: sei unità in tutto. Un’Europa che, con impegno, si preoccupa del passaporto dei furetti croati; della peluria del cavolfiore; della lunghezza delle banane; della cipolla che può essere considerata tale solo sulla base del suo diametro. 
La stessa Unione che legifera sugli asparagi bianchi, che possono essere anche rosa; che pretende che il pisello debba risultare turgido e fresco; che sponsorizza con tre milioni di euro l’uso degli insetti in cucina; che finanzia il dialogo fra estoni e ucraini sul tema delle marionette; che scrive ventidue pagine di regolamento per specificare che “il serbatoio dell’acqua calda è quello che contiene acqua calda”; che ha finanziato con 400.000 euro i Gorilla volant, un gruppo esperto nel fare musica  a suon di sassofoni e rutti. Sì, avete capito bene: proprio di rutti. 
Non bastasse tutto questo, eccoli litigare per uno scoglio abitato solo da molluschi; a battagliare per due anni al fine di stabilire la formula dello “sciacquone perfetto”, in altre parole dello scarico del water. E se sino all’altro ieri ci si occupava della curvatura dei cetrioli e altre amenità del genere, oggi le cose non sono migliorate di molto. 
In effetti anche chi è dotato di robusti paraocchi se ne è accorto. E non tanto per la sudditanza dalla Germania, che pure ha contribuito a far peggiorare le cose (vedi ad esempio la scopiazzatura del blocco delle vaccinazioni con AstraZenica che era stato deciso da Berlino), quanto per il fatto che la moneta unica, da quando è entrata in vigore, ci ha reso più poveri e ha accresciuto le differenze tra i Paesi membri. Un’Europa che peraltro si propone sempre più lontana dai cittadini e dai loro bisogni, opprimendoli con una quantità di normative astruse quanto superficiali e inutili. 
Esaminiamo, ad esempio, come è stata e viene ancora trattata la questione dei vaccini. Prendiamo l’Ema, appunto l’Agenzia europea del farmaco, che non riesce a decidere in fretta (anche quando pressata dall’urgenza) in quanto troppo presa a mettere d’accordo i 27 Stati membri. Mentre altri analoghi organismi di controllo - come la statunitense Food and Drug Administration (l’Agenzia per gli alimenti e i medicinali) - decidono prima di noi anche se sottoposti a controlli più rigidi e severi. Un contesto che ha messo in allerta gli europeisti di turno, che non possono più far finta di nulla sui pacchiani errori decisionali fatti. Ad esempio sottoscrivendo contratti capestro con le case produttrici di vaccini, lasciandosi peraltro imporre clausole astruse. 
Insomma, di lezioni sinora ce ne siamo fatte impartire parecchie, troppe. Non a caso, ultimamente, sono stati in molti a scoprire che l’elefantiasi burocratica europea è un assurdo in termini, tale da far “assolvere” persino quella italiana che già di suo risulta folle e insopportabile. È quindi giunto il momento, sia pure nelle forme più corrette (e in questo il presidente del Consiglio, Mario Draghi, è un maestro), di farsi sentire. E anche la “piccola” Italia può farlo. 
Prendete il caso delle dosi AstraZenica prodotte da noi e destinate all’Australia (con l’ulteriore “giallo” al seguito delle 29 milioni di dosi stoccate ad Anagni, in provincia di Frosinone, per le quali tutti sembrano essere caduti dal pero). Draghi, primo in Europa a decidere, le ha bloccate. Qualcuno si è adombrato, altri si sono trovati a doversi confrontare con le lagnanze degli inglesi (che non mancano occasione per sbandierare il loro diritto di fare quello che vogliono), altri ancora hanno tergiversato (tecnica che a Bruxelles va per la maggiore). Ma alla fine anche i nostri soci comunitari, fra uno sbuffo e l’altro, ci sono venuti dietro. Vorrà pur dire qualcosa…

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