L'Editoriale

La ripresa della nostra economia fra speranze, strategie e salti nel buio

Su quali settori puntare? Come investire i soldi del Recovery Plan? Quale sarà il ruolo delle Regioni? E quello rischioso legato alle... riaperture?


26/04/2021

di MAURO CASTELLI

Non facciamoci troppe illusioni, anche se la luce in fondo al tunnel, come qualcuno ha ipotizzato, già si incomincia a intravvedere. Ma, è bene sottolinearlo, soltanto a intravvedere. In quanto non sarà facile rimediare ai disastri provocati dalla pandemia, che giocoforza - a voler essere onesti - non ha praticamente risparmiato nessuno. 
Prova ne sia il giustificato malumore delle piazze (che tuttavia non meritano rispetto quando trascendono in violenza a causa di questo o di quello. Visto che, come si sa, la colpa non è mai di nessuno), la lunga sfilza di attività familiari che hanno chiuso i battenti, la lista sempre più corposa dei senza lavoro nonostante il blocco dei licenziamenti, la povertà che ha contagiato larghi strati della popolazione, gli investimenti rimasti al palo a fronte del lievitare, oltre che del lavoro in nero, di risparmi improduttivi e via dicendo. 
E che dire dell’azzeramento, in quanto in pratica è stato tale, del mondo del turismo e delle vacanze, in abbinato a quello alberghiero e della ristorazione? Da mettersi le mani nei capelli, sempre che di capelli se ne abbiano ancora. 
Insomma, non siamo messi bene. Anche se a tenere in piedi il nostro Paese ci sono attività che hanno retto, sia pure a fatica e con il sacrificio di tanti, all’onda lunga della crisi. In primis, la qual cosa non sorprende, i comparti farmaceutici e chimici in abbinata alle diversificazioni legate al Covid (produzione di mascherine, apparati medicali, respiratori, disinfettanti…), ma anche l’industria alimentare (in quanto non si può mica vivere d’aria), oltre a quello delle macchine utensili e dei materiali da costruzione. Fermo restando il ruolo del manifatturiero, che ha saputo reggere senza perdere quote significative di mercato. 
Certo, è necessario pensare in positivo, in quanto da potenza industriale quale siamo (nessuno ce lo può disconoscere, a dispetto delle solite cassandre della porta accanto) la voglia di produrre e (ri)conquistare fette di mercato fa parte del nostro Dna. Perché, se vogliamo, siamo capaci di inventarci il domani, a fronte di una creatività che nessun altro popolo si sogna nemmeno. 
Teniamo presente, e questo vorrà pur dire qualcosa, che oltre il sessanta per cento dello scibile mondiale (tutto ciò che può essere inventato, realizzato, appreso e conosciuto dalla mente umana) è targato tricolore. E non lo diciamo noi. Basta sfogliare, per rendersene conto, l’Enciclopedia britannica, figlia di un Paese che, come tutti sappiamo, non è mai stato tenero con l’Italia. 
Semmai i problemi sono altri. Magari il deficit statale salito all’11,8, il più alto dal primo Dopoguerra dopo il recente scostamento di bilancio di altri 40 miliardi di euro che ha portato a un debito record al 159,8 per cento (“Ma si tratta di un debito buono, in quanto legato anche a una scommessa sulla fattibilità di 57 grandi opere”, ha tenuto a precisare Draghi), oppure quelli legati a decisioni prese al buio da politici e politicanti che tali non sempre sono. Per non parlare dei danni provocati da una burocrazia dilagante, il cui compito non è quello di vigilare, ma di far pesare il ruolo di cariche molte volte inutili, visto che da noi una poltrona non si nega a nessuno. La qual cosa provoca ritardi, intoppi e irritazioni a non finire, oltre che conseguenze pesanti. Con costi spesso insostenibili. 
Di fatto, che ci sia una incrinatura crescente fra ruolo decisionale della politica e i numeri legati ai vari settori industriali, turistici e culturali, è evidente. Con una perdita di Pil che nel 2020 è stata quantificata dall’Istat nell’8,9 per cento a fronte di una pressione fiscale salita al 43,1 per cento rispetto al 42,4 dell’anno precedente. Ma bisogna anche tener conto che i miracoli non si possono fare soltanto a base di ristori, redditi aggiuntivi a pioggia, mancette decisionali da vergogna (vedi, ad esempio, gli incintevi per i monopattini elettrici). 
In ogni caso, come recitava il titolo di un libro dedicato a temi svolti dai bambini, Io speriamo che me la cavo. E lo speriamo davvero, viste anche le nostre previsioni di crescita elaborate dall’Ocse, che risultano leggermente superiori a quelle medie dell’Eurozona e addirittura superiori di quattro decimi rispetto a quelle della Germania. Vale a dire un più 4,1 per cento per quest’anno e un più 4 ipotizzato per il prossimo. Crescita trainata, fra l’altro, dalla componentistica per auto (un mercato che si sta lentamente rimettendo in moto dopo aver a lungo boccheggiato), dalle macchine utensili (che hanno registrato un balzo del 49 per cento nel primo trimestre), dal settore robot e automazione (anche se alcuni pezzi pregiati sono stati messi sul mercato), nonché dall’edilizia, sponsorizzata dal bonus ristrutturazioni. 
E poi a darci una mano saranno anche i 209 miliardi di euro del Recovery Plan, che sarà però necessario spendere presto e bene. Facendo attenzione a dove e come saranno indirizzati. Visto che, prima ancora che questi quattrini ci siano stati elargiti, le Regioni si stanno già accapigliando per portarsi a casa la fetta più consistente. Dimenticandosi, in diversi casi (e non vogliamo fare nomi), di non essere riuscite a spendere i finanziamenti comunitari legati al periodo 2015-2020, con il rischio di perderli se non si farà in fretta. 
Insomma. Giusto lamentarsi, in quanto i problemi sono sotto gli occhi di tutti. Ma altrettanto giusto - visto che il Governo ci sta via via allentando le briglie dell’operatività - è rimboccarsi le maniche, smettere di piangerci addosso, di chiedere elemosine e cercare di rimettere in moto quel motore produttivo che ci ha reso grandi nel mondo. A partire dal comparto turismo - una macchina che vale una marea di posti di lavoro diretti e indiretti - prima che ci sia rubato da Paesi come Spagna, Grecia, Portogallo e Francia. Virus permettendo, ci mancherebbe.

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