Il tempo delle scelte: oggi il Recovery Fund, nel 1948 il Piano Marshall. Ma cosa accomuna le due operazioni e quali le differenze?
10/05/2021
di MAURO CASTELLI
Non so in quanti siano a conoscenza, per ragioni anagrafiche, del Piano Marshall (che prese il nome dal generale George C. Marshall, oltre che segretario di Stato fra il 1947 e il 1949, insignito per questo del premio Nobel per la pace nel 1953) varato dagli americani per venire incontro ai problemi della ricostruzione in Europa legati al Secondo conflitto mondiale. Per il quale piano, non volendo sbagliare strada, gli americani decisero di affidarne la regia ad alcuni nascenti organismi internazionali: l’Onu per assicurare la pace, la Banca mondiale per la ricostruzione e lo sviluppo e il Fondo monetario internazionale per la gestione dei crediti e della finanza.
Di certo, in questi ultimi tempi, se ne è parlato molto di questo piano, messo in campo appunto per far fronte ai danni provocati dalla guerra. E in molti lo hanno giudicato alla stregua di un parente stretto con quello varato dall’Unione europea, ovvero il New Generation Eu, per cercare di ridare vitalità e slancio alle economie del Vecchio continente messe in ginocchio dalla pandemia.
Due iniziative, ma anche due stanziamenti di diversa entità: 13 miliardi di dollari da parte degli Usa (all’incirca 135 miliardi di euro attuali, ma bisogna tener conto anche del diverso potere di acquisto di allora) contro gli attuali 750 miliardi, 390 dei quali previsti in sussidi a fondo perduto e il resto in prestiti. Ma con due belle differenze: ovvero che la Gran Bretagna oggi è fuori dalla Ue (e che del piano Marshall fu invece il maggior beneficiario) e che l’Europa ha la capacità di autofinanziarsi. Ovvero attingendo a titoli di debito comune.
In ogni caso, se il piano Marshall rappresentò una tappa fondamentale per la rinascita dell’Europa (in abbinata all’affermazione a stelle e strisce al di qua dell’Atlantico perché, come si sa, nessuno fa ma nulla per niente e l’allora avanzata del comunismo spaventava molto la Casa Bianca) anche quello varato da Bruxelles ha i suoi risvolti positivi. Soprattutto, una volta tanto, anche per quanto ci riguarda.
Di fatto i due progetti per certi versi si somigliano: in primis per assicurare la ripresa, ma anche per controllare che questi crediti non imboccassero la strada della speculazione e degli sprechi. Così mentre il Congresso Usa mantenne il diritto di bloccare i finanziamenti nel caso fossero spuntati i soliti furbetti, anche Bruxelles ha deciso di vederci chiaro sui programmi di spesa dei singoli Paesi. A partire dal nostro che, complici politiche sbagliate del passato, risulta sempre nell’occhio del ciclone. Ma stavolta a vigilare sull’operazione c’è un… certo Mario Draghi, figura di livello internazionale.
Lo scorso 30 aprile, come si sa, il nostro Governo ha girato agli uffici europei competenti (ovvero la Commissione) la nostra bozza di spesa di quello che è stato ribattezzato Recovery Fund, che dovrà essere esaminato nei prossimi due mesi, per poi dare vita ai primi stanziamenti di 25 miliardi a partire forse da luglio. Più probabilmente da fine estate.
Come è noto l’Italia potrà contare su 209 miliardi ripartiti in 81,4 miliardi di sussidi e 127,4 miliardi in prestiti. Il resto delle quote saranno canalizzate attraverso ulteriori “pilastri” dell’operazione anticrisi per un totale di 248 miliardi.
Una bozza di spesa approvata a larghissima maggioranza, la nostra, ma sulla quale - ci mancherebbe - cova il fuoco delle ambiguità e, quindi, delle rivendicazioni. In quanto, la storia è vecchia, più la torta è grossa e più c’è da mangiare. In effetti sono molte le angolature politiche in essere. Ed è quindi importante non sottovalutare il modo in cui i partiti appoggeranno il Pnrr, magari alzando più o meno l’asticella di questa specie di road map in vista delle prossime urne. Perché un sì o un no potrebbe condizionare i rispettivi programmi elettorali.
Con un ulteriore rischio al seguito: che i progetti in ballo vengano presi come scusante. In altre parole si arrivi a comportamenti simili a quelli in atto per i precedenti stanziamenti europei (che poi, vista l’italica quota associativa all’Unione, sono sempre nostri quattrini), ovvero legati al fatto che finiscano per non essere spesi o peggio ancora.
Come appunto successo nell’ultimo quinquennio, con oltre il sessanta per cento di finanziamenti ancora inutilizzati e purtroppo in via di scadenza. Ma cerchiamo, almeno questa volta, di pensare in positivo. Benché sia risaputo che le strade dell’inferno risultano da sempre lastricate di buone intenzioni.
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