Prima pagina

Il grande bluff delle banche

Il consumo interno distrutto e la fiducia in crollo, le élite europee vedono nella guerra contro la Russia l’unico strumento per distrarre le masse, rilanciare l’industria bellica e ridefinire un nuovo ordine economico


22/04/2025

di Marco Ricci


Negli ultimi anni, molte banche europee hanno mostrato segnali di debolezza, pur continuando a proporsi pubblicamente come stabili e affidabili, grazie a comunicati rassicuranti e bilanci apparentemente in ordine. Tuttavia, un’analisi approfondita dei loro conti rivela che diversi istituti di credito non rispettano più le norme internazionali ideate per garantire la sicurezza del comparto finanziario. Queste direttive, conosciute come “accordi di Basilea”, mirano a far sì che le entità finanziarie mantengano riserve adeguate per affrontare eventuali shock.
Il primo di questi accordi, Basilea I (1988), richiedeva una riserva minima dell’8% sui prestiti concessi. Una norma semplice, ma insufficiente. Con Basilea II (2004) si introdussero regole più complesse, permettendo agli operatori di valutare autonomamente i rischi con modelli interni, aprendo però la porta a manipolazioni contabili per apparire più solidi.
Dopo la crisi del 2008, Basilea III ha imposto requisiti più severi: riserve reali, limiti all’indebitamento e maggiore prontezza nei momenti critici. Tuttavia, l’introduzione graduale di queste regole è stata spesso frenata dalle pressioni degli stessi colossi del credito, desiderosi di conservare vecchie pratiche operative.
Entro il 2028 si attende Basilea IV, un insieme normativo ancora più rigoroso, che limiterà l’uso disinvolto di modelli interni per il calcolo dei rischi. Il problema è che molti gruppi bancari, soprattutto i più rilevanti, faticano ad adeguarsi senza il sostegno costante delle autorità monetarie e dei governi. In assenza di questi interventi, i bilanci non reggerebbero.
I casi concreti abbondano: il salvataggio di Monte dei Paschi di Siena, la fusione imposta tra Credit Suisse e UBS, il collasso della Silicon Valley Bank. Tutti esempi di fragilità strutturale del sistema creditizio, che spesso sopravvive solo grazie a manovre d’emergenza: prestiti a tassi favorevoli, garanzie pubbliche, operazioni straordinarie di liquidità e ricapitalizzazioni statali. In questo schema, l’intervento statale e delle banche centrali funge da rete di salvataggio, mentre gli enti finanziari proseguono le attività su basi instabili, sovraccarichi di crediti inesigibili, asset sopravvalutati e strumenti derivati opachi. Senza questo supporto esterno, molti bilanci andrebbero incontro a un dissesto tecnico.
Il caso tedesco è emblematico: un importante operatore come Deutsche Bank ha un’esposizione in derivati pari a oltre 55 trilioni di euro, circa cinque volte il PIL dell’Eurozona. Un’esposizione che rappresenta una minaccia sistemica: anche una perdita contenuta potrebbe avere effetti catastrofici sull’intero ecosistema finanziario europeo.
Secondo Andrea Enria, presidente del Consiglio di vigilanza della BCE, il totale dei crediti deteriorati nell’Eurozona ha raggiunto 1,4 trilioni di euro. Questo dato evidenzia l’urgenza di soluzioni strutturali e coordinate a livello continentale.
La crisi attuale ha radici profonde nella trasformazione dell’economia globale degli ultimi decenni. La globalizzazione ha progressivamente eroso il potere d’acquisto interno, delocalizzando la produzione e aumentando la precarietà. Gli istituti finanziari, anziché sostenere l’economia reale, hanno preferito attività speculative, scollegandosi sempre più dalla quotidianità dei cittadini.
Negli ultimi anni, molti operatori del credito sembrano essersi dimenticati di una verità fondamentale: senza economia reale non può esistere finanza, nemmeno quella speculativa. I mercati finanziari, per quanto sofisticati, si nutrono del valore generato dalla produzione di beni, dai servizi concreti, dal lavoro e dal reddito delle persone. Ogni titolo, ogni derivato, ogni asset finanziario ha come fondamento un’attività economica sottostante. Se quella base viene meno, anche le bolle speculative, per quanto gonfiate, sono destinate a scoppiare. La finanza può moltiplicare il valore solo se esiste qualcosa di reale da cui partire; altrimenti, si tratta di costruzioni vuote, destinate al collasso non appena manca il combustibile dell'economia reale.
Ciò ha alimentato un ciclo vizioso: meno occupazione stabile, meno domanda interna, meno crescita e maggior fragilità nei conti degli operatori del credito. Queste strutture, che dovrebbero fungere da motore dell’economia, sono diventate entità autoreferenziali, mantenute in vita artificialmente.
In questo scenario, il ritorno a un’economia sovrana, spesso criticato, potrebbe offrire una via d’uscita. Rilanciare la domanda interna, aumentare i salari, ridurre la pressione fiscale, tutelare le produzioni strategiche con politiche mirate non significa isolarsi, ma riequilibrare la relazione tra globalizzazione e benessere locale. Se i cittadini tornano a disporre di redditi stabili, è naturale che crescano consumi, investimenti e richieste di finanziamento. Gli istituti di credito, in un tale contesto, potrebbero tornare al loro ruolo originario: finanziare progetti, sostenere imprese, stimolare lo sviluppo. Un esempio concreto è la politica industriale degli Stati Uniti, con l’Inflation Reduction Act e i sussidi alle produzioni locali, oppure il Giappone, che ha sempre mantenuto una solida base industriale interna.
L’Europa, invece, rimane intrappolata nei dogmi del mercato assoluto: assenza di protezioni, rigore fiscale, compressione dei salari, e un sistema tributario penalizzante. Questo modello ha fallito. Occorre il coraggio di cambiare strada, di rimettere al centro la persona, il lavoro, le realtà produttive locali. Solo così si potranno riportare in equilibrio i conti del settore creditizio: non con formule matematiche, ma con una società che torna a generare valore, reddito e speranza. Altrimenti, l’Unione rischia di trasformarsi in una struttura senz’anima, destinata al collasso, incapace di salvare se stessa e le economie che la compongono.

(riproduzione riservata)