Il caso Mattarella fra polemiche, minacce ed eccessi
Chi fa politica e aspira a governare un Paese dovrebbe andare a lezione di bon ton istituzionale
04/06/2018
di Tancredi Re
L’Italia che fa politica dovrebbe tornare a scuola. Non di politica, ma di bon ton. Nel confronto politico, ma anche quando si ricopre un incarico pubblico elettivo e nel modo con cui ci si rapporta con le Istituzioni e con chi le rappresenta, occorre, secondo noi, utilizzare un certo tipo di linguaggio, avere atteggiamenti consoni, tenere comportamenti ineccepibili. Quello che è avvenuto nella settimana di passione seguita al fallimento del primo tentativo di portare il professore Giuseppe Conte a Palazzo Chigi è uno spettacolo indegno di un Paese democratico e civile.
Contro il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella (artefice della nascita del nuovo Governo), si è scatenata una odiosa campagna: è stato schernito, insultato e minacciato, anche di morte, con un lessico mutuato dal linguaggio della mafia, non solo nei social (con tre indagati a Palermo) ma anche nelle piazze.
E per quanto riguarda i politici? La Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, e il leader del Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio hanno brandito la minaccia di promuovere il procedimento di messa in stato di accusa del capo dello Stato per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. Salvo poi ripensarci due giorni dopo e “archiviare” l’iniziativa. Perché sull’altare della realpolitik lo “strappo” istituzionale è stato per fortuna ricucito durante gli incontri informali tenuti per rilanciare il Governo giallo-verde guidato dal giurista Conte.
Ci chiediamo: ce n’era bisogno? Dov’era la pietra dello scandalo? Il torto di Mattarella sarebbe consistito nel non volere dare il proprio consenso alla proposta di nominare il professore Paolo Savona ministro dell’Economia indicato dal presidente del Consiglio incarico per dichiarazioni e pubblicazioni nelle quali si sarebbe schierato apertamente contro l’euro e per una fuoriuscita dell’Italia dall’Unione monetaria. Ma Mattarella, a ben vedere, non aveva fatto niente di diverso da alcuni suoi illustri predecessori (dal vulcanico Sandro Pertini al più severo e protocollare Oscar Luigi Scalfaro, il presidente dei “non ci sto”): far valere le prerogative che l’articolo 92 della Costituzione assegna al capo dello Stato. Che così recita: “Il Governo della Repubblica è composto dal presidente del Consiglio e dai ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri. Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. Il Capo dello Stato può rifiutarsi di nominare una persona designata, se ne ravvisa ragioni di opportunità per tutelare l’interesse generale del Paese e princìpi costituzionali.
Il presidente della Repubblica, infatti, è il garante dell’unità nazionale e il custode della Costituzione, nonché la più alta Magistratura repubblicana. Censurare e criticare un’Istituzione o chi la rappresenta è legittimo perché fa parte della libertà di manifestazione del pensiero garantito ad ogni persona (articolo 21 della Costituzione). Ma l’esercizio di questa libertà non può trascendere nell’insulto, nell’oltraggio e nella minaccia. Questi sono reati oltre a essere azioni riprovevoli se commessi contro chiunque, ma diventano particolarmente odiosi se formulati nei confronti di una carica dello Stato a causa dell’esercizio delle sue funzioni.
Ora è facile scalare un muro basso, cioè prendersela con un rappresentante di un’Istituzione che deve essere (e l’ha dimostrato) al di sopra delle parti, mentre è più difficile mantenere nervi saldi, usare il fair play (non vale solo nel calcio) e praticare il galateo istituzionale. Perché non fa clamore e non porta voti. Per essere tale e aspirare legittimamente al governo del Paese, qualsiasi uomo o donna che faccia politica oltre all’equilibrio, alla visione ed al pragmatismo, deve conoscere le buone maniere e il galateo ad avere il senso della misura e della responsabilità. In una parola deve dare buoni esempi di virtù civiche. È una forma di rispetto verso se stessi e verso i cittadini: il Paese guarda e giudica la classe politica non solo da come opera, ma anche da come parla e si comporta nelle Istituzioni e nelle piazze.
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