Europa o non Europa, euro o non euro: vale davvero la pena di mettersi di traverso?
La politica accomodante dei precedenti Esecutivi è risultata fallimentare. Ma anche esagerando il rischio è dietro l’angolo
16/07/2018
di Mauro Castelli
La linea politica monodirezionale portata avanti da Mario Pinzi, direttore di questa testata, tende - di fronte a una logica legata a maglie strette a quanto è successo negli ultimi anni - all’esagerazione. Non so se si tratta di una convinzione reale o soltanto di facciata: non sono nella sua testa. Di fatto però, pur nelle sue grandi aperture al contraddittorio (nessuno può negare che non abbia dato voce, deglutendo amaro, anche a chi la pensa in maniera diametralmente opposta), non ha mancato di battere e ribattere - in fatto di coerenza non ha uguali - sugli stessi argomenti, senza deviare di un millimetro. Puntando metodicamente, in abbinata al suo sostegno a Matteo Salvini senza se e senza ma, sul ruolo deleterio della finanza speculativa nonché sulla necessità di abbandonare l’euro. E, se fosse per lui, anche l’Europa, colpevole in buona sostanza dei troppi mali italiani.
Il tutto supportato da un suo sacrosanto credo: quello che battere moneta rappresenti la panacea di tutti i nostri problemi. Quando invece battere moneta significa puntare su pericolose svalutazioni inflattive, che soltanto nel breve periodo consentono boccate d’ossigeno alla competitività delle nostre imprese. E poi, punto e a capo.
Ma qual è il reale pensiero del nostro stimato direttore? Di dare respiro all’economia e, nel contempo, regalare sberle a destra e a sinistra ai nostri attuali partner comunitari. Alla faccia, in primis, dello strapotere tedesco (la sua disistima verso la Merkel non l’ha mai nascosta, in quanto del coraggio d’opinione ne ha da vendere). Dimenticando però (volutamente?) di quando, con l’Europa di oggi ancora di là da venire, l’inflazione viaggiava oltre il venti per cento, il nostro debito correva verso l’abisso (non che adesso stiamo meglio), i parlamentari cercavano di tamponare gli aumenti in busta paga dei lavoratori con blocchi contrattuali che loro stessi, per primi, aggiravano vergognosamente. E qui ci rifacciamo all’arrivo dell’euro, che se da un lato è stato pagato caramente dagli italiani per via delle accondiscendenze prodiane sul cambio con la nostra vecchia lira (con il conseguente impoverimento generale), dall’altro ci ha consentito di tenere la rotta nei difficili momenti segnati dalla crisi.
Certo, in linea di principio il pinziano pensiero sulle sue linee politico-finanziarie salva-paese risultano condivisibili, ma - scavando nel concreto - ci rendiamo conto che nascondono pericolosi saltafossi. In quanto, oggi come oggi, il contesto speculativo internazionale sembra averci messo sotto tutela. Nel senso che non vede l’ora di regalarci bastonate a ripetizione, che si riflettono pesantemente (pensate soltanto agli effetti dello spread) sui nostri conti. E se quindi ci trovassimo in balìa dei venti, senza il paravento dei detestati vincoli comunitari, finiremmo per pagarne caro lo scotto. In quanto, complice un astronomico debito pubblico, non possiamo permetterci di ergerci a prime guide del nostro destino. Nei tempi andati forse era così, oggi purtroppo - anche se ci può dare fastidio - la musica è cambiata.
E fortuna ha voluto che alla guida della Bce ci sia stato un uomo come Mario Draghi (che sul Governo Conte si è mostrato estremamente prudente: “Prima di parlare aspettiamo i fatti”), il quale, attraverso il quantitative easing - purtroppo sulla via del tramonto - ci ha consentito di tirare il fiato e di uscire dalle secche della crisi e delle speculazione.
Ma torniamo all’euro: Mario Pinzi sostiene che bisogna affossarlo. Ma con quali risultati? E se, mettiamo il caso, fosse qualcun altro a non volerci più come compagno di viaggio nell’àmbito della valuta unica? A porsi questo contestato interrogativo è stato peraltro il ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, sostenendo - in audizione davanti alle commissioni parlamentari sulle Politiche Ue in sessione congiunta - che bisogna essere pronti anche ad affrontare questa evenienza. Il nostro direttore lo avrà saputo? Se sì, siamo certi che avrà brindato a bollicine…
Intanto il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, incomincia a rilasciare interviste, cercando in questo modo di regalarsi un po’ di credibilità. Forse memore di quanto sosteneva Giulio Andreotti, che cioè il potere logora chi non ce l’ha. Assicurando: “Sono un giurista: approfondisco i problemi e perseguo gli obiettivi guardando alla sostanza”. Ma lui - pressato com’è da due ingombranti compagni di viaggio che gli dettano le regole di ingaggio - è davvero convinto di essere una prima guida vera per il Paese?
Lui che ha avuto modo di annotare sul contestato Decreto dignità: “Non c’è alcun motivo per le piccole e medie imprese di infuriarsi. Negli ultimi anni destra e sinistra hanno alimentato una falsa opposizione tra lavoro e impresa, ma la verità è che un mercato del lavoro più stabile rilancia la domanda interna, con ricadute positive sui profitti d’impresa. Naturalmente non ci fermeremo qui: i prossimi passi saranno la riduzione del cuneo fiscale e la semplificazione burocratica, che abbiamo già iniziato nel Decreto dignità disattivando ad esempio il redditometro”. E sulle pensioni? “I problemi dell’Inps si possono risolvere solo riportando a lavorare (come se fosse facile…) circa 6 milioni di disoccupati, dei quali quasi 3 milioni sono inattivi scoraggiati”.
Insomma, tante belle parole. Ma fra il dire e il fare ci sono di mezzo… Salvini e Di Maio. Almeno in questo siamo d’accordo, caro direttore?
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