Punto & Virgola

Umberto Galimberti e il paradosso della vecchiaia

Il vicolo cieco del pensiero scientifico moderno


28/08/2017

di Andrea di Furia

I miti del nostro tempo, di Umberto Galimberti, è un libro che consiglio a tutti di leggere. L’ho particolarmente apprezzato per la ricchezza di spunti – sempre interessanti, spesse volte anche straordinariamente ironici e godibilissimi - offerti al lettore interessato a capire il nostro tempo. Basta solo pensare che appena una delle idee malate trattate dall’arguto Filosofo (che definisce anche “comode”, e in quanto tali miti del nostro tempo) ci accompagnerà per alcune settimane su questa rubrica.

Tuttavia fin nel titolo questo saggio denuncia la povertà di concetti con cui quest’epoca sta lottando, traducendo le parole “idee malate” - idee comode e rassicuranti (come giovinezza e intelligenza, felicità e amore materno, moda e tecnica, sicurezza e potere, mercato e crescita economica, nuove tecnologie ecc.) e tuttavia idee che ci possiedono (!) - con la parola “miti”.

E persino il suo orientamento è unilaterale: promosso da quel pensiero scientifico cui oggi, per afferrarlo in pieno, si dovrebbe attribuire oltre all’aggettivo di “materialista” - ossia limitato a ciò che vede, pesa e misura - anche quello di “economico”: nella duplice accezione di utilitaristico e di richiedente il minimo sforzo (per il massimo risultato).

Con questa osservazione che vuol solo essere una caratterizzazione del modo attuale di un pensare debole, che va superato, non vorrei dare l’errata impressione che il saggio di Galimberti vada messo da parte. Tutt’altro: è un libro che va letto per tutta una serie di motivi importanti, che il lettore amerà scoprire da sé.

Per il pensare tridimensionale (il contrario di monodimensionale o unilaterale) che di norma applichiamo al sociale, la povertà concettuale e l’unilateralità del pensare moderno in generale appare evidente.

Ma così – sia chi è Sociologo come Bauman, sia chi è Filosofo come Galimberti, sia tutti gli altri contemporanei (senza avvedersene e senza lauree pensano tutti come fossero scienziati moderni) – siamo destinati a restare ancorati allo sterile e depressivo gradino della “denuncia”. Senza poter offrire soluzioni capaci di orientare la vita sociale attuale verso un consapevole e concreto risanamento.

Oggi, disorientati quali siamo, va invece di moda la non-soluzione tecnica di “subire adattandosi” - per forza maggiore (economica, giuridica, dogmatica) - vera e propria contro-resilienza scientifico-economica disumana, che ci opprime tutti.

Pensiamo al riscaldamento climatico, figlio della forsennata globalizzazione finanziaria: creato il deserto... ci si adatta con i semi OGM resistenti alla siccità. Tecnicamente grandioso, ma infecondo! Salvo per pochi eletti e furbissimi... profiterol.

 


Iniziamo adesso con la povertà concettuale, con quel pensiero spremuto come un limone che usiamo tutti i giorni e che (tra l’altro) deriva direttamente dall’orientamento materialistico a senso unico del pensiero scientifico moderno.

Oggi si lavora solo con i concetti astratti, ma senza sapere cosa vuol dire “astratti”. Astratti da cosa, estratti da cosa? Dall’immagine del Mito! Concetti perciò privi della concreta immagine contestuale: concetti derivati pertanto dall’esaurimento progressivo dell’antica vitalità del Mito di epoca presocratica.

Vita immaginativa allora, oltre tre millenni fa, capace non solo di essere compresa dal pensare religioso, ma pure da quello artistico e scientifico dell’epoca. Vitalità del Mito che si contrappone oggi all’impoverimento estremo, quasi mortifero, del concetto astratto: capace di essere compreso soltanto dal pensare scientifico.
E, dicendo questo, non esageriamo affatto. Se infatti osserviamo a cosa si sono ridotte la Religione e l’Arte, che oggi si nutrono del pensare scientifico, troviamo... che suicidano se stesse.

La Religione, ad esempio nel Cristianesimo degli ultimi secoli, ha partorito teologi che negano non solo la duplice realtà divino-umana del Cristo-Gesù, ma persino la realtà storica del Gesù di Nazaret: in quanto mancano sufficienti documenti probativi della sua esistenza. Per loro forse il Cristianesimo è nato sotto un cavolo, oppure l’ha portato la cicogna.

E la seconda? Non appena l’Arte aderisce in profondità all’espressione concettuale astratta non diventa altro che matematica illustrazione (Escher) o depressiva decorazione (teschi indiamantati) della Scienza. Perdendo la sua stessa essenza: che è più che Scienza, ma oggi non ce ne si avvede facilmente.

Il Mito, quindi, non è una cosa negativa o una bambineria degli antichi nostri predecessori – il debole pensiero scientifico moderno lo reputa questo – o un’idea malata in quanto comoda nel senso del libro di Galimberti, bensì qualcosa che l’uomo moderno non è più capace di interpretare... perché si è evoluto.

Il titolo corretto del suo saggio dovrebbe dunque essere: Le idee malate del nostro tempo, senza nobilitarle ricorrendo al Mito, di cui non si riesce più a capire nulla col solo pensiero scientifico moderno: che dal punto di vista evolutivo ha fatto il suo tempo, e andrebbe superato.

Un momento intermedio di passaggio tra immagine del Mito e concetto astratto noi occidentali lo possiamo vedere più facilmente nei Vangeli: là dove il Cristo Gesù utilizzava per le masse le parabole immaginative (come quella del Seminatore) che poi spiegava astrattamente, concettualmente, ai suoi Discepoli.

È dall’esaurirsi delle ricche immagini del Mito che nascono i nostri concetti astratti, ora diventati poveri. Senza il Mito non esisterebbe la nostra attuale Scienza. In realtà è dall’esaurirsi del dogma mitico-religioso non più compreso che nasce il nostro attuale dogma scientifico-materialista.

Dogma scientifico che afferma, arrogante, di poter fare tutto – persino curare la morte con un vaccino (!) – mentre non è neppure banalmente in grado di comprendere il sociale moderno. Sociale moderno in cui il pensiero scientifico imperversa, pur essendo in merito un perfetto analfabeta sociale di ritorno, e dove “toppa” continuamente.

Senza avvedersi di esserne l’imbranato artefice, origina paradossi che poi vorrebbe curare o risanare in qualche modo: sentendosi persino autorizzato ad intervenire in tal senso nonostante i disastri pregressi.

Autorizzato da chi? Da se stesso! Come se un bambino appena giunto al cambio dei denti da latte dicesse che adesso può fare a meno dei propri genitori in tutto, anche nel pagarsi le bollette, perché lo ha appena deciso lui.

 


Il nostro Autore, nel suo godibilissimo scritto, di questi paradossi ne segnala a piene mani. Osserviamone insieme uno tratto dal capitolo: Il mito della vecchiaia.

Idea malata di vecchiaia in realtà tutt’altro che mitica, solo da poco tolta dal ghetto dell’indicibile in cui era stata gagliardamente confinata dai chirurghi estetici per diventare ora materia di discussione e riflessione.

Galimberti: «Non perché siamo diventati più teneri con i vecchi e neppure perché la nostra cultura ha fatto cadere tutti i tabù, ma perché l’aumento della speranza di vita, che tutti augurano e si augurano pur di esorcizzare la morte, minaccia una catastrofe sociale dai devastanti effetti previdenziali, sanitari e assistenziali.
Ma questo interessamento ai problemi della vecchiaia da parte di psicologi, sociologi, medici e (oggi ultimi benarrivati) degli studiosi di genetica non deve trarre in inganno. Le loro ricette, i loro farmaci non hanno come scopo quello di riportare il vecchio, se non al centro, almeno all’interno della dinamica sociale da cui nelle società avanzate (che poi sono quelle in cui davvero s’invecchia) è stato escluso; ma semplicemente quello di neutralizzarlo con una serie di comfort che lo fanno sentire solo e inutile come prima, però accudito.
Solo e inutile non per destino biologico ma per le condizioni storico culturali che caratterizzano il nostro tempo, che proprio nella vecchiaia incontra il suo paradosso. Da un lato infatti il progresso della medicina e delle condizioni sociali di vita hanno allungato la vecchiaia e accresciuto il numero dei vecchi; dall’altro il progresso tecnico che caratterizza la nostra cultura ha fatto del vecchio un incompetente, non più all’altezza dei tempi e quindi inutile».

Vediamo che qui il Filosofo Galimberti, come il sociologo Bauman, esaurisce il gradino della critica [pienamente condivisibile] intesa come “denuncia”.

Ma critica significa anche “interpretazione” e allora serve non fermarsi, ma approfondire; non fermarsi alla denuncia come fosse un’esaustiva risposta, bensì farsi altre domande.

E per uscire da questo vicolo cieco, per non sbattere contro il muro del caos antisociale montante, serve farsene almeno due di queste domande:

  1. perché la Cultura, dall’epoca del Mito (vecchio = saggio) ad oggi (vecchio = peso morto), ha fatto un triplo salto mortale carpiato con avvitamento all’indietro?
  2. il progresso tecnologico-medico-sociale che sta promuovendo l’aumento della vecchiaia porta alla distruzione civile del vecchio: cosa rivela questo rapporto tra progresso e distruzione? sia nel senso di svelare sia in quello di velare due volte, di nascondere qualcosa?

Due domande chiave su cui, per dare una risposta adeguata, avremo modo di ritornare sopra nelle prossime settimane.

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