L'Editoriale

Il Paese dei troppi "no" e l'incapacità di saper guardare avanti

Bloccare gli investimenti e dichiarare guerra alle infrastrutture significa creare meno posti di lavoro e azzoppare la crescita


03/12/2018

di Mauro Castelli

Scusate, cari lettori, se questa settimana non parliamo di finanza speculativa, delle malefatte di Bruxelles e di un (impossibile) ritorno alla vecchia lira, temi tanto cari a Mario Pinzi, direttore di questa testata. Temi che peraltro propone in versione diversificata un giorno sì e l’altro pure. Semmai andrebbe battuto il chiodo sulla miopia di questo Governo in tema di infrastrutture, con il vicepremier Luigi Di Maio a insistere su una parolina che sembra essergli, purtroppo, tanto cara: quella del “no”. 
Da qui no alla Tav (la tratta ferroviaria ad alta velocità Torino-Lione), no rivisto alla Tap (la Trans-Adriatic Pipeline, ovvero il gasdotto transadriatico che dopo aver attraversato Grecia e Albania interessa la Puglia), no alla Pedemontana (il Sistema viabilistico fra le province di Varese, Como, Monza-Brianza, Milano e Bergamo), no al Terzo valico (l’alta velocità sulla Genova-Milano), no alla Gronda (una sorta di tangenziale che avrebbe dovuto alleggerire il traffico cittadino sotto la Lanterna, messo a dura prova dal crollo del ponte Morandi), no ai termovalorizzatori al Sud e non solo, no a questo e no a quello. 
Va subito rilevato che, a detta dei diversi organismi internazionali (e non ci vuole molto a capirne il perché, visto che i numeri sono sotto gli occhi di tutti), il nostro beneamato Paese soffre di una malattia gravissima: quella legata, appunto, alla voluta mancanza di investimenti in infrastrutture. E costruire, la storia insegna, vuol dire crescere e dare lavoro alla gente. 
Esattamente il contrario di quanto frutterà il tanto sbandierato reddito di cittadinanza, destinato a raccattare voti sovvenzionando una buona dose di nullafacenti. I quali - vogliano scommettere? - si siederanno comodi sul loro… assegno di solidarietà senza versare una stilla di sudore e fare una briciola di fatica. Semmai, per i più volenterosi, si spalancheranno le porte del lavoro nero. Perché non pagare i contributi (senza la preoccupazione di una ritorsione da parte dei lavoratori) rappresenterà un affare per chissà quanti piccoli imprenditori, peraltro oberati da tasse e contributi esagerati, nonché ovviamente per la marea dei soliti furbetti del quartierino. 
Investimenti, si diceva, che l’Esecutivo in carica sembra snobbare bellamente in quanto più propenso a concretizzare le promesse elettorali (e in questo non va dimenticata la salviniana quota 100 per andare in pensione) visto che, se non supportate dai fatti, si tradurrebbero in uno sconquasso di voti persi già dalla prossima andata alle urne. Ma dare la stura a ulteriori debiti per sovvenzionare lo stato sociale, senza incentivare gli imprenditori sulla strada della crescita, non è la strada giusta da seguire. E il muro contro muro con Bruxelles - sia pure mitigato nelle ultime settimane, quando si è vista la brutta china che avevano preso i mercati - è diventato una specie di cavallo di battaglia virale. 
Nel senso che se ne sono fatte carico la Banca centrale europea (lo stesso Mario Draghi, che pure ci ha sempre guardato di buon occhio, ha dovuto garbatamente ammonirci), l’Ocse, la Banca mondiale, le agenzie di rating nonché paesucoli europei senza arte né parte che farebbero bene a stare zitti e a vergognarsi. In quanto quasi tutti sono pronti a gridare allo scandalo per i nostri decimali in più in manovra perché così non si rispettano le regole, salvo poi non rispettarle quando non rientrano nel loro tornaconto. Ricordate, ad esempio, i ventimila e passa migranti dei quali i nostri soci dell’Unione dovevano farsi carico? Anche quello era un patto sottoscritto e firmato, ma nessuno, guarda caso, lo ha onorato. E tutti zitti e mosca. 
In buona sostanza, e qui torniamo al dunque, il fuoco incrociato finanziario del quale abbiamo parlato ha fatto lievitare lo spread (il rapporto fra il rendimento dei nostri titoli di Stato e i bund tedeschi) a livelli francamente non sostenibili. Il cui costo, e stiamo parlando di miliardi di euro (mica di noccioline), finiranno per ritorcersi non solo sulla solidità delle nostre banche, ma soprattutto sui risparmi degli italiani, che si sono già visti maltrattare i loro investimenti e aumentare le rate dei mutui a tasso variabile. Per non parlare degli interessi da pagare per chi vuole accedere a un prestito, nonché delle fughe di capitali già in atto da più di un mese. 
Ma torniamo al discorso delle grandi opere che, se ne è parlato molto, soffrono da tempo della cosiddetta sindrome di Nimby (dall’inglese Not in my back yard), ovvero l’opposizione alla realizzazione di opere utili alla collettività da parte di piccole comunità locali, in questo supportate dalla complicità di alcune frange politiche. Opposizione che porta a rallentare gli investimenti, ma anche a creare incertezza giuridica. La qual cosa provoca il rigetto delle imprese straniere a investire da noi. Senza trascurare il fatto che non sappiano nemmeno utilizzare i miliardi europei a noi destinati. Basti ricordare che l’Italia - pur a fronte di sprechi che gridano vendetta - ha sfruttato soltanto il 5 per cento dei fondi Ue previsti per il periodo 2014-2020. Da vergognarsi. 
Per farla breve. Quando si spendono quattrini pubblici bisogna valutare con attenzione i pro e i contro, così come è necessario tenere sotto controllo i costi. Ma da qui a dire sempre no, a mettere in discussione ogni singola opera, di acqua sotto i ponti ce ne corre.

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