150 miliardi senza voto
Il Parlamento respinge l'iter accelerato del piano di difesa
28/04/2025
di Giovanni Rizzo

La recente bocciatura, da parte della Commissione Affari Giuridici del Parlamento europeo (JURI), dell’iter proposto dalla Commissione europea per il piano di riarmo dell’Unione rappresenta molto più di una disputa giuridica. È, a tutti gli effetti, il sintomo evidente di un’Europa ormai svuotata di visione, dilaniata da contraddizioni interne, incapace di parlare con una sola voce e di agire in maniera coerente di fronte alle sfide del presente. La bocciatura unanime del tentativo della Commissione di invocare l’articolo 122 del Trattato per approvare un fondo da 150 miliardi di euro, destinato al riarmo e alla sicurezza strategica, senza passare dal voto del Parlamento europeo, non è soltanto una questione di forma: è una questione di sostanza democratica, di fiducia e di futuro.
Invocare uno strumento pensato per emergenze gravi ed eccezionali, come crisi energetiche o catastrofi naturali, per giustificare una scelta strutturale e politica come quella della militarizzazione dell’Unione, è stato percepito da molti non solo come una forzatura, ma come un abuso. Un atto tecnocratico che ha disconosciuto il ruolo del Parlamento, già spesso ridotto a ratificatore silente delle decisioni della Commissione e del Consiglio. Ma questa volta il muro è stato eretto dai giuristi dell’Eurocamera stessa, e la bocciatura è arrivata compatta: un chiaro segnale che qualcosa si è rotto. Anzi, che forse era già rotto da tempo.
L’Europa così come l’abbiamo conosciuta, fondata sul dialogo tra Stati, sulla mediazione infinita, sul primato della tecnocrazia rispetto alla sovranità popolare, si può dire finita. La narrazione europeista che per anni ha giustificato scelte impopolari in nome dell’integrazione, oggi non regge più. E non perché manchino le ragioni per rafforzare l’Unione, ma perché mancano i leader capaci di farlo in modo credibile, trasparente, condiviso.
I leader che guidano oggi le istituzioni europee appaiono scollegati dalla realtà dei cittadini, guidati da una visione elitaria e autoreferenziale. Hanno ereditato un'architettura costruita su ideali nobili, ma la gestiscono come se fosse un’azienda multinazionale, dove la priorità è l’efficienza delle decisioni, anche a scapito della legittimità politica. La verità è che l’Europa ha bisogno di una nuova classe dirigente. Una generazione di leader che non temano il conflitto delle idee, che abbiano il coraggio di proporre riforme profonde, anche a costo di riscrivere i Trattati. Non servono burocrati esperti di equilibrio tra le capitali, servono politici coraggiosi, dotati di visione e legittimazione democratica.
Il caso del piano di riarmo bocciato dalla JURI è solo l’ultimo di una lunga serie di cortocircuiti che mostrano la disconnessione tra l’Europa istituzionale e l’Europa reale. Mentre il mondo si polarizza, le guerre avanzano, e gli equilibri globali si spostano, l’Unione resta impantanata nei formalismi, o peggio ancora, tenta di scavalcarli nel silenzio, per paura che la voce dei cittadini e dei loro rappresentanti possa dire “no”.
Se l’Europa vuole davvero contare nel mondo, non può costruire la sua forza su atti d’autorità senza consenso. Deve ripartire dalla democrazia, dalla trasparenza, da un patto sociale che le dia nuova linfa. E soprattutto deve rinnovare la sua guida, scegliendo uomini e donne che sappiano unire e non dividere, che sappiano ascoltare prima ancora di decidere, che parlino ai popoli d’Europa con la lingua della responsabilità e non con quella dell’arroganza istituzionale. Solo così l’Europa potrà tornare ad essere ciò che prometteva: un progetto di pace, libertà e coesione, non un edificio senz’anima retto da regole senza cuore.
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